La festa di Santa Lucia: da Bergamo a Siracusa, in nome di un ricordo, di una tradizione e delle arance

Me la ricordo come una notte, anzi la notte, più bella, emozionante e lunga dell’anno. Quella tra il 12 e il 13 dicembre. Quella di Santa Lucia.

Ricordo nitidamente i preparativi, a casa. Mia madre che, alle 21.00 in punto sistemava, su una sedia vicino al camino, un bicchiere di latte, dei biscotti, un’arancia e una carota: “Così quando Santa Lucia arriva, dopo aver lasciato i tuoi regali, può rifocillarsi. Prima di riprendere il suo viaggio per il mondo, a consegnare altri doni agli altri bambini”. “Sì, mamma. Ma la carota a chi serve?”. “Al suo asinello. E poi le carote fanno bene agli occhi e Santa Lucia è la patrona della vista. E tu porti gli occhiali”. “E questo che c’entra?”. “Beh, sarebbe bello che ti regalasse, se farai il bravo, anche una vista nuova! Ora però fila a letto! Che se Lucia viene e ti trova alzato, in questa casa non entra e tira dritto”.

Ricordo che a letto, pur cercando mille scuse per ritardare il momento, ci andavo. Ma di dormire, neanche a parlarne. Orecchie tese, occhi a combattere con il buio, i brividi per la schiena, un’eccitazione folle: cuore e corpo erano pronti a captare ogni rumore, ogni sfregolare di luce, ogni cambio d’aria, ogni sbalzo d’ombra. Stavo così, per almeno un’oretta. Poi, naturalmente, crollavo. Sotto il peso della stanchezza e dell’attesa.

Ricordo che il mattino del 13 dicembre, anzi l’alba del 13 dicembre, mi alzavo e senza neanche mettermi le ciabatte correvo verso il salotto. Con gli stessi brividi, la stessa eccitazione, la stessa frenesia della notte prima. E… e davanti ai miei occhi, nudi e “difettosi” trovavo: il sorriso compiaciuto e malizioso di mia madre, la metà circa dei doni di cui avevo fatto richiesta, i biscotti smangiucchiati ai bordi (che tipo strano, ‘sta Santa: non poteva mangiarsi un biscotto intero, piuttosto che sbocconcellarne tre?!), il bicchiere di latte svuotato, metà carota e l’arancia priva di due spicchi.

Ricordo che facevo la conta dei regali e chissà perché ne mancava sempre qualcuno (spesso il più grande e costoso), di quelli di cui avevo espresso desiderio. Me ne lamentavo con mamma e lei, per tutta risposta, andava in camera a prendermi gli occhiali, me li infilava e mi diceva: “Guarda bene, che qualcosa c’è ancora…”. Guardavo bene. Ma i pacchi non aumentavano.
In compenso, trovavo, sotto al bicchiere svuotato del latte, la lettera che Santa Lucia aveva scritto, in risposta alla mia. Una lettera lunga, grafia fitta che assomigliava molto a quella di mia madre, piena di belle parole e grondante di “bei” sentimenti (tipo: “il pallone di cuoio che mi hai chiesto, questa volta ho preferito portarlo a un bambino più sfortunato che non ne ha nemmeno uno e non ha nemmeno l’oratorio dove poter giocare. So che tu capirai, sei un ometto giudizioso e generoso…”).

Ricordo. Sì, ricordo anche di aver scoperto dopo – da adolescente, in gita – che a Roma (e in molte altre parti d’Italia, del sud soprattutto) i bambini aspettavano i regali da Babbo Natale. Non da Santa Lucia. Successivamente, scartabellando su un’enciclopedia – sì, mi toccava fare ricerche senza Google – avevo, diciamo così, scoperto che la Santa (una giovane martire che il 13 dicembre del 304 d. C. morì a seguito delle persecuzioni di Diocleziano) aveva “subappaltato” da Babbo Natale “il servizio di distribuzione” dei regali in parecchie città del nord, oltre alla mia Bergamo: Brescia, Piacenza, Cremona, Udine. Per poi fare pure la scoperta dell’esistenza di una lingua di terra interregionale, in cui i piccoli ancora oggi scrivono la letterina a Santa Lucia, che porta i doni il 13 dicembre, nella notte più lunga che ci sia (più lunga per la tradizione e l’attesa dei bimbi, non certo per la precisione degli scienziati).

Già la letterina. Ricordo anche che la si consegnava l’otto dicembre, Festa dell’Immacolata. Dopo pranzo, si partiva alla volta di Bergamo, città molto devota a Lucia. In una chiesetta piccola e graziosa, in realtà dedicata a Maria Addolorata, era esposta una teca contenente la statua della Santa e, a fianco, posate su un cuscino, due pietre colorate a rappresentare i suoi occhi (che si narra, erroneamente, le siano stati cavati durante la persecuzione).

A questa chiesetta, io e mamma ci arrivavamo, dopo aver lasciato la Fiat 126 in Piazza Pontida e aver percorso, di lena e con la letterina in mano, una via XX Settembre piena di luci, festoni natalizi, vetrine ricche, negozi pieni di giocattoli, vestiti… E dopo l’immancabile fila al portale, si entrava in religioso silenzio: una processione colorata di adulti silenti e bimbi speranzosi che, depositando davanti alla teca della Santa la propria lista di desideri, la settimana dopo quei regali facessero la loro comparsa nel salotto di casa. E mentre mia madre pregava che, davvero, per la grazia di quegli occhi suoi pietrosi, i miei diventassero più vivi e fermi, io rimpiangevo di non aver inserito in lista quella strepitosa pista delle macchinine che avevo visto poco prima nella vetrina di un negozio della via.

Ricordo. Sì, ricordo anche i due (due dei tanti…) traumi legati a Lucia, che hanno segnato il mio crescere. Il primo, a 10 anni, quando mi svelarono il terribile segreto dell’inesistenza dell’asinello con in groppa la Santa portatrice di doni. “Alla T. non stai simpatico e non si vuole mettere con te”, mi disse una mia compagna di giochi, in cortile: “perché sei piccolo ancora… Per esempio, credi ancora che i regali li porti Santa Lucia”. “Perché, non è così?”. “Ma va là…. i regali li porta la mamma…”. Rimasi impietrito per qualche minuto. Poi, dimentico persino di T. e del suo rifiuto, corsi a chiedere spiegazioni a mia madre. Che, sorpresa, abbozzò, tergiversò e poi, tra una lacrima e una risata, buttò lì una mezza verità: sì, in effetti i doni era lei a portarli (e, soprattutto, a scrivere quelle lunghe e fitte lettere di risposta alla mia), ma con l’aiuto degli zii e per intercessione della Santa che, in sogno, le svelava quali regali portarmi…

Il secondo, a 20 anni: quando scoprii – per la voce del curato del mio oratorio, durante un incontro tra animatori per organizzare una festa di Santa Lucia, cittadina e solidale, non per distribuire doni ma per raccoglierli e poi spedirli ai bimbi di una missione in Africa – che la Santa mica era bergamasca (come bene si racconta anche qui). Macché: le sue origini erano siciliane, di Siracusa per la precisione: “La città di Archimede e delle arance“, disse il prete. E io, pensando alle arance che mia madre lasciava davanti al camino, giurai che, un giorno, sarei andato a controllare. Sarei andato a Siracusa.

E infatti. Qui sono.
In viaggio nello splendido Sud Est siciliano, facendo base a Ragusa Ibla, mi sono preso questo 13 dicembre e dopo aver parcheggiato la mia Fiat a noleggio, di mattina ho passeggiato fino al cuore di Ortigia, a pochi passi dal Duomo di Siracusa, per entrare nella chiesa di Santa Lucia alla Badia, splendido esempio dell’eclettica architettura siciliana, mix di gusti e culture, in cui lo stile barocco si adagia con delizia su richiami e suggestioni spagnoleggianti. Ma a rapirmi è il Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio (il Merisi: un altro bergamasco in cerca di risposte…), opera di grande valore artistico e simbolico.

E dopo pranzo, eccomi tra l’impressionante folla di fedeli che accompagnano in processione la statua argentea di Santa Lucia, portata a spalla da decine di portatori col berretto verde. Mi accodo al corteo. Attraversiamo le vie della città, meta finale la Basilica di Santa Lucia al Sepolcro. È un cammino lento, lungo, solenne, scandito dal campanello di un cerimoniere di nero vestito. Ma è soprattutto il silenzio a colpirmi: rende questa processione diversa dalle altre che ho conosciuto in questo lembo di Sicilia. La rende più simile ai cortei religiosi del mio nord.  Di tanto in tanto (quasi a rispondere ai miei dubbi) si alza un grido:Sarausana è!” al quale i fedeli fanno eco con un: “Viva Santa Lucia!“.

Mi adeguo: cammino in silenzio, strisciando i piedi e gridando in coro: “Viva Santa Lucia!”. E in cuor mio le chiedo scusa. Non tanto per aver dubitato della sua origine. Quanto per non averle portato una letterina, in questo 13 dicembre. Eppure lei un regalo è riuscita ugualmente a farmelo. No, la mia vista è sempre precaria, ma grazie a tutti questi ricordi, stimolati dal silenzio della processione, noto che le distanze tra i territori, tra le genti, tra il nord e il sud (non solo d’Italia) possono davvero ridursi, più di quanto si creda.

Nel nome di una tradizione, delle arance e di un paio di occhi da bambino.

Matteo Durante

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